L’Aquila distrutta e soggiogata, una mesta esperienza

Il week-end scorso ho avuto la fantastica opportunità di visitare L’Aquila con l’Istituto Svizzero. Ecco qua alcune foto e dei pensieri su questa intensissima gita.

Sono stati due giorni intensi, abbiamo cominciato visitando il Fucino, una piana che una volta era il terzo lago d’Italia per estensione e che ora è un’immensa zona agricola. L’operazione di bonifica, iniziata già dai romani (il lago si alzava e abbassava tantissimo, così da essere ogni tanto lago, ogni tanto zona paludosa) fu compiuta come oggi la vediamo da Alessandro Torlonia a metà dell’Ottocento. Al motto “o io prosciugo il Fucino, o il Fucino prosciuga me”, liberò i terreni dalle acque e ne ottenne la concessione di sfruttamento dai Borbone. Fu una delle prime vere grandi opere finanziarizzate. Pagata di tasca sua, Torlonia era imparentato con i Borghese e i Colonna e  oggi verrebbe definito il “Banchiere di Dio” considerando la marea di soldi che già allora prestava al Vaticano.

Vista la Grande Opera (alla faccia del ben più misero Agro Pontino mussolinano … che però venne usato come propaganda di massa e quindi è molto più ricordato) ci siamo diretti verso la Grande Distruzione.

L’Aquila e la sua provincia sono state colpite nell'aprile 2009 da un violento terremoto che ha distrutto una miriade di case e mietuto 308 vittime. È stato il terzo terremoto a colpire in modo così violento la città, già rasa al suolo nel Quattrocento e nel Settecento, poi sempre ricostruita. Il motto della città Immota manet  rende bene l’idea dell’atteggiamento che gli aquilani pongono nei confronti dei terremoti e della loro volontà di ricostruire la città.

In periferia la situazione ormai è abbastanza sistemata, il 90% delle abitazioni è stato ristrutturato, l’economia è stata abbastanza ripristinata (anche se c’è stato un evidente abuso di costruzione di capannoni), la grande università è tornata ad avere quasi gli studenti che aveva prima del terremoto. La situazione però si aggrava man mano che si arriva in centro.

L’accoglienza è terrificante, si comincia, in una zona impervia della città, dalla Casa dello Studente spezzata a metà e da altre 5 o 6 edifici sventrati. Nella Casa dello Studente sono morti 8 giovani (che avevano chiesto se le crepe nel palazzo fossero pericolose e che erano stati atrocemente rassicurati), nel palazzo vicino sono morte 17 persone. Il pullman ci lascia nei pressi di un bel parco Ottocentesco dove si affacciano palazzi pieni di crepe e si cammina verso il centro. I palazzi che ci accolgono sono perlopiù di epoca fascista o moderni (pieni di crepe e stanze distrutte), anche a L’Aquila la disintegrazione edilizia modernista aveva cominciato a mietere le sue vittime architettoniche.

Ben presto abbiamo però capito che, più ci si addentrava, più lo spettacolo sarebbe stato spettrale. Accolti da un check-point controllato da una camionetta militare ormai molto tollerante, ci siamo cominciati ad addentrare nelle antiche vie del centro e abbiam cominciato a capire cosa sia la famosa “zona rossa”. A tutti i palazzi, da quelli medievali a quelli novecenteschi, hanno messo un “esoscheletro” metallico, a dipendenza della gravità della situazione più o meno ampio. Si tratta di tubi metallici, di putrelle, di cavi d’acciaio, di fettucce rinforzanti, di tutto in po’. Le finestre sono rafforzate con strutture in legno, le volte sono puntellate, anche gli interni degli edifici sono pieni di questi “pali” che reggono in piedi le stanze. Nella tragicità della situazione verrebbe quasi da interrogarsi su questa nuova “estetica” della città, gli edifici hanno completamente mutato la loro identità, architetture che prima erano simili ora appaiono diversissime a dipendenza del tipo di puntellamento che hanno dovuto subire.

A parte alcune zone invalicabili, la zona rossa è percorribile a piedi. Un paio di anni fa cittadini ribelli hanno rotto i check-point militari e sono entrati con migliaia di carriole per togliere le macerie dalla loro città, che a causa della militarizzazione era stata immobilizzata come nei giorni seguenti la catastrofe. Questa azione ha permesso ad alcuni intrepidi di riaprire la piazza centrale e alcuni servizi commerciali (bar, negozietti, parrucchieri), ma parliamo di poche decine di attività in tutto il centro. Girare in città è assolutamente desolante. I cittadini e i turisti in città sono tutti silenziosi, osservano con mestizia i tubolari di acciaio, le insegne spente, le architetture dimenticate, i pochi palazzi ristrutturati da chi ha avuto la forza economica per farlo. Più ci si addentra nelle stradine, più l’evidenza per il disastro sociale si palesa, si capisce che la gente viveva in città, si capisce che c’era una normalità che è la nostra di tutti i giorni. La chiesa a metà, l’università distrutta, il bar riempito a metà di calcinacci, qualche straccio rimasto steso sui cavi tra un balcone e l’altro, il motorino ormai arrugginito, la cucina arredata rimasta là, come ad aspettare che arrivi qualcuno a cucinare. Lo spettacolo diventa insopportabile  alla vista di una giacca a vento sotto le macerie di un edificio crollato del tutto, alla vista delle solette di cemento armato con cui negli anni ’50 si sopraelevavano le case ignari che avrebbero creato danni ancora maggiori alle strutture più antiche, alla vista degli edifici recenti talmente danneggiati che sembra abbiano assistito allo scoppio di una guerra in Libano. La desolazione dell’anima non si placa nemmeno di fronte ad alcuni prodigi come alcune stupende facciate di chiese Seicentesche rimaste intatte, né di fronte alla bellezza dell’auditorium progettato da Renzo Piano e regalato alla cittadinanza dal Trentino Alto Adige. Si capisce che questa città non è più città, è solo mattoni e metallo, svuotata di vita, di relazioni, di gioia.

La visita continua, purtroppo bisogna vedere alcune cose fino in fondo, cercando almeno per quel poco di capire la realtà di quei luoghi. È al limite di un macabro turismo della morte stile Costa Concordia, ce ne rendevamo conto e cercavamo di rendere la visita meno invadente possibile. Soprattutto l’Istituto ha cercato di renderla più scientifica possibile. Siamo infatti stati accompagnati da una giornalista, un professore di storia e da un antropologo che ci hanno spiegato il contesto in cui ci muovevamo durante tutto il nostro peregrinare.

Dopo altre visite abbiamo infine fatto rotta sulle New Town, i paesini costruiti rapidamente dal governo Berlusconi che hanno potuto ospitare una grande parte dei terremotati rimasti senza un tetto. Ci siamo solo passati attraverso, al momento di uscire non ce la siamo sentita, ci sentivamo come ad uno zoo e non volevamo assolutamente ledere l’umanità di quella gente. La questione delle New-Town è comunque molto complessa: da quel che ho capito l’idea di costruire una nuova città dopo un terremoto era un pallino di Berlusconi e quindi il progetto era già nel cassetto del capo della protezione civile, Bertolaso, uomo di fiducia del Caimano. Caduta L’Aquila, Berlusconi subito propose questa nuova Aquila2, ma la popolazione vi si oppose fermamente e quindi il progetto venne disgregato in 19 nuclei abitativi da un migliaio di posti ciascuno.

Dopo una situazione disumana in cui la popolazione è stata tenuta in condizioni di militarizzazione forzata nelle tendopoli (situazione ben descritta da varie inchieste e infine riassunta dal film Draquila) l’idea di andar ad abitare in abitazioni “chiavi in mano” è stata vissuta come una liberazione estrema per tantissima gente. Queste case però avevano e hanno degli enormi problemi: sono costate un occhio della testa con prezzi assolutamente fuori mercato (sono stati tutti appalti diretti, la Corte dei Conti si è più volte lamentata per questo); la qualità delle costruzioni è risultata bassa, tanto che già dopo 3 anni e mezzo si palesano vari problemi strutturali; la stabilità antisismica è stata messa sotto accusa nonostante avessero detto che erano stati studiati dei sistemi rivoluzionari apposta; non sono previsti negozietti e servizi, per cui la vita sociale è stata completamente disgregata; le regole di assegnazione sono state poco partecipative. Ma soprattutto, e questa è stata per me la cosa più choccante, alcune di queste New-Town sono lontanissime dalla città, a ridosso di paesini montani a 20 km e 600 metri di dislivello sopra L’Aquila. Fare tutta quella strada e scoprire che gli abitanti del centro erano stati messi là, dimenticati da tutto e da tutti, senza servizi, mi ha fatto sorgere grosse domande sul concept di ingegneria sociale che è stato elaborato prima di decidere dove sistemare questi villaggi.

Il nostro viaggio è iniziato con la visita di una grande bonifica, dimenticata a causa della propaganda di un’altra grande bonifica, ed è finita con la visita di villaggi dimenticati dal mondo a causa di una propaganda molto simile che ha voluto far credere a tutti che in fondo ormai era stato tutto sistemato. No, non è così. È un problema di soldi (ci vogliono ancora almeno 5 miliardi per L’Aquila e altri 3 per il resto della provincia, a fronte di un miliardo di troppo speso per le New Town e dei tagli che il governo Monti ha dovuto fare anche sugli aquilani), ma è anche e soprattutto un problema di consapevolezza collettiva. Gli abitanti del posto hanno speranza, lo comunicano appena possono. Ma vivono anche un conflitto intensissimo con la stampa che non informa la popolazione italiana sulla loro reale situazione. No, a L’Aquila non va tutto bene; no, non è stata ricostruita; e no, le New-Town non sono quel paradiso che tutti immaginano guardando il TG.

Ci sarebbero tante altre cose da dire, ma penso le più importanti che mi sono rimaste da questo viaggio siano queste, spero che queste poche foto che pubblico possano aiutarmi a esprimere meglio queste mie parole.

F.C.
29.4.2013

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