La banca degli organi

Riflessioni sul libro “La morte cerebrale e il trapianto di organi”

Paolo Becchi, filosofo del diritto, cattolico non praticante, sicuramente un antagonista dei liberi pensatori, ha scritto un bel libro nel 2008 a titolo La morte cerebrale e il trapianto di organi (ed. Morcelliana). L’opera analizza la discussione scientifico-filosofica sulla definizione di “morte cerebrale” elaborata nel 1968 da un comitato etico-scientifico di Harvard. Posto di fronte al problema dei pazienti sottoposti irreversibilmente a respirazione artificiale, con il cuore battente, ma senza più coscienza, esso dovette indicare cosa farne. Considerando che in quei casi in genere l’asistolia si manifestava in tempi brevi si decise di equiparare il “coma irreversibile” alla morte. Da quella decisione, nacque poi nel 1980 la definizione di morte cerebrale, ovvero la “cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’intero cervello, inclusa la corteccia cerebrale”.

Nel suo libro Becchi critica principalmente l’uso di queste due parole (brevi e tutte) poiché come è noto ci sono scienziati che negano si possa provare la fine di tutte le funzioni cerebrali e contestano che il tempo necessario per l’asistolia sia sempre breve. La questione non è triviale: data l’intangibilità dell’essere umano (seguendo l’imperativo in dubio pro vita), un paziente dovrebbe anzitutto essere morto con certezza per potergli espiantare gli organi. Giuridicamente l’argomento è veramente intrigante, poiché staccando il respiratore a una persona in “coma irreversibile”, ma viva, si rischierebbe d’essere punibili per omicidio.

C’è però un altro argomento che secondo me vale la pena di analizzare più a fondo e che nell’opera di Becchi è – ahimé – toccato solo marginalmente, ovvero l’irreversibilità della perdita delle funzioni cerebrali e della coscienza. La questione è chiara: una persona irreversibilmente incosciente non si accorgerà mai di essere ancora viva o di essere già morta. Tutto cambia invece agli occhi di coloro che le stanno intorno: famigliari, medici, autorità penali, chi è in attesa per un trapianto d’organi, chi come Becchi crede nell’intangibilità della vita in quanto tale.

Un problema decisivo soprattutto se lo si affronta discutendo l’imperativo in dubio pro vita accennato sopra. Esso non definisce infatti la vita di chi dovrebbe essere salvaguardata in caso di dubbio sull’avvenuta morte del paziente. Se con la “morte cerebrale” avviene la perdita di (quasi) tutte le funzioni dell’encefalo, e quindi l’irreversibile perdita dello stato di coscienza, che valore ha la vita residua del paziente? E soprattutto, che rapporto ha con la vita di un paziente cosciente che sta morendo, ma che potrebbe essere salvato con una donazione di organi?

Potremmo quindi chiederci seriamente se l’interpretazione del dubio non debba piuttosto essere intesa come in dubio pro vita accipientis. Tra chi non ha più chances di risvegliarsi e chi ne ha ancora, quale vita deve essere salvaguardata? Nel dubbio, chiaramente quella a cui rimangono delle chances.

Se l’irreversibilità fosse provata (e provarlo è IL grande problema del nostro tempo, visto che nessuno di noi ha una sfera di cristallo! Questo è il punto su cui dovrebbe indagare Becchi!) non avremmo difficoltà ad accettare che al paziente “cerebralmente morto”, ma ancora in vita, vengano espiantati gli organi. Quella vita irreversibilmente compromessa permetterebbe infatti di salvare una vita recuperabile di qualcun altro.

Quest’idea di bilanciamento tra valori (vita cosciente irreversibilmente perduta/vita salvabile) non è peraltro estranea alla cultura svizzera. Nel Codice Penale svizzero esiste ad esempio il concetto di “stato di necessità esimente”. Esso consiste nella possibilità di commettere lecitamente un reato se esso “preserva un bene giuridico preponderante altrui da un pericolo imminente e non altrimenti evitabile”. Se è vero che chi è in stato di “morte cerebrale” irreversibile è ancora vivo, come dice Becchi, e il prelievo di organi ne causa la morte, questo prelievo avrebbe comunque la finalità di salvare altre vite.

Ma pensiamoci bene: la salvaguardia della sacralità della vita di chi ancora ha delle chances è il primo vero pensiero di coloro che sostengono che il respiratore si può staccare. E probabilmente sarebbe l’estremo atto d’amore di ognuno di noi sapendo di trovarsi in uno stato di coscienza irreversibile: scegliere di salvare una vita, quella del ricevente gli organi, seguendo per l’appunto l’imperativo in dubio pro vita.

F.C.
pubblicato su “Libero Pensiero” 01-02-03 2013