I robot ci rubano il lavoro? Evviva i robot!

Copio qui un articolo del 21 febbraio 2018 di Paolo Bosso trovato sul sito della rivista NERO. Esprime alcune riflessioni sul nuovo libro Inventare il futuro di Nick Srnicek e Alex Williams, pubblicato da NERO nel 2018. Un estratto del libri è pubblicato sulla pagina della rivista. Qui potete acquistare il libro.

Dovessi immaginarmi, qui e ora, da qualche parte, mi immaginerei a Gorga, in Cilento. Un prefabbricato, un camino, la playstation, la banda larga. Sotto casa, il bar sport. Niente sesso, droga o pastorizia, piuttosto vita di paese e connessione col mondo. Fagiolo di Controne e sessioni multiplayer. Provincia e digitale. Una folk life.

In principio era Slavoj Žižek. Un uomo barbuto, trasandato, con la zeppola, che parlava dalla cantina del Bates Motel o dal bagno del film La Conversazione in un’irresistibile psicofilosofia retromaniaca, spingendoci a riflettere sulle conseguenze del riconoscimento di una struttura di cui non si può fare a meno. Una teoretica che eredita la lezione degli strutturalisti. Politicamente, quella di Alain Badiou, l’ultimo dei french philosophers, uno dei pochi pensatori che nel XXI secolo riesce ad adoperare con disinvoltura termini quali «comunismo» e «sinistra» senza farti sentire un adolescente o un pensionato. Badiou è un maestro: tanto un must della filosofia popolare quanto un formidabile autore platonico-matematico che si è sforzato di ripensare l’essere sessant’anni dopo l’ultimo tentativo. Se Heidegger ha chiuso l’epoca dei filosofi – sbattendo la porta e lasciando la patata bollente a quegli sfigati dei poeti – Badiou è il «poeta dei radicali», il custode dell’Idea di comunismo.

Poi ci siamo stancati. Non di Badiou – quello è un filosofo – ma di Žižek. Con le sue combo di strutturalismo e barocchismo cinematico-citazionista, l’intellettuale sloveno è oggi indistinguibile dalla sua pagina fan, affettuosamente ironica.

Poi è arrivato Mark Fisher. Anche lui citava i film e la letteratura. Di più, ha citato Žižek senza compiacere i radical-chic, anzi, mostrandoci al contrario la sua eredità (il filosofo sloveno sa essere anche rigoroso, vedi Il soggetto scabroso). Ha ripreso termini cari ai maoisti, li ha shakerati con futurismo, cyberpunk e strutturalismo riattualizzando la critica di sinistra tra gli anglosassoni. Fisher ha creato un territorio all’avanguardia dove analitico e continentale si incontrano ma non si salutano. Un miracolo chiamato Cybernet Culture Research Unit (CCRU).

Se una politica di sinistra appare oggi assolutamente – soltanto – pensabile, allora non ci resta che ridurla a mera filosofia, a un’amorevole riflessione? Come per l’heideggerismo filosofico, si tratta di custodirne il sapere in attesa di tempi migliori? La cosa può essere confortante ma nel frattempo ha prodotto un sovraffollamento di psicoanalisti, cineasti e lacanisti succubi delle Maiuscole. Ci siamo passati tutti.

Mi piace pensare che sia stata questa ipertrofia teoretico-estetica ad aver spinto Nick Srnicek e Alex Williams a scrivere prima il Manifesto per una politica accelerazionista e, a seguire, Inventare il futuro. La via d’uscita al radicalchicchismo politico non risiede in altri concetti ma in iperstizioni, termine creato dalla CCRU, definito dagli autori come «una specie di finzione – si legge in Inventare il futuro – che ambisce a trasformarsi in realtà». L’approccio analitico incontra quello continentale. Non si tratta più di scoprire la verità dietro il velo di Maia. Non c’è nessun nouminoso, neanche il nulla, né cose-come-sono, soltanto altre apparenze come un multiverso al di là dell’orizzonte cosmico.

Culturalmente, è lo smantellamento di un’apparenza, l’ideologia neoliberale, in vista della costruzione di un’altra, il comunismo. Filosoficamente, un ritorno all’idealismo, quel dalla terra al cielo di Marx. Ma dopo mezzo secolo di ubriacatura strutturalista, la questione diventa non tanto trasformare la realtà sulla base di un’idea ma intervenire violentemente sulle finzioni, le posture, le ideologie, per strutturarne una migliore, più giusta. Se gli iperoggetti di Timothy Morton sono inevitabili perché troppo vicini – i dispositivi di controllo, il linguaggio –, se non si sfugge all’interiorizzazione delle ideologie, l’iperstizione ci salverà, perché interviene prendendo ciò che di buono offre il nemico, la sua strategia egemonica, svelando come la natura naturata dell’ideologia è sempre vissuta come natura naturans, quello che Fisher chiama realismo (there is no alternative).

Sappiamo che i gesti nevrotici di Valentino Rossi quando sale in moto gli servono per regolamentare l’imprevedibilità della guida al limite, che i complottismi sono, come affermano Srnicek e Williams, «mappe cognitive». La provocazione dei due è strutturalista: così come oggi vediamo di buon occhio la superstizione, allo stesso modo si può pretendere la redistribuzione della ricchezza, l’emancipazione, la giustizia sociale, l’acculturazione di massa, l’accelerazione tecnologica in nome di immaginari specifici. Inventare il futuro torna a sostenere l’importanza di trasformare uno status quo sulla base di una credenza, con la differenza, rispetto alla superstizione, che qui l’immaginario riflette una realtà auspicabile piu che l’evasione da una realtà orribile.

Questo è il nocciolo del nuovo futurismo dalla sinistra accelerazionista di Srnicek e Williams. Non si tratta di evitare la sfiga o di detronizzare un’inesistente comunità di controllori quanto di riformare l’economia, riacculturare il mondo riattualizzando la vecchia istanza di sinistra della giustizia redistributiva. L’avanguardia non si limita a mettere in discussione la logica del profitto, del Capitale. Il realismo è un macigno. Piuttosto, per emancipare tutti bisogna destabilizzare le fondamenta di tutti. Srnicek e Williams la chiamano educazione del desiderio. Qui si tratta di essere diplomatici, dei raffinati commercianti, degli psicologi comportamentisti, degli esperti di programmazione neurolinguistica. Quindi, concretamente? Una violenza che si riassume in questo slogan: facciamola finita col lavoro. Oppure: il lavoro è sopravvalutato.

Per emancipare tutti bisogna destabilizzare le fondamenta di tutti.

Si legge in Inventare il futuro: «La rivendicazione di un mondo post-lavoro aspira alla proliferazione dei desideri, all’abbondanza, alla libertà». Gli stessi dispositivi che determinano la nostra schiavitù diventano un mezzo per liberarsi. È una terra incognita quella tracciata da Srnicek e Williams. La strategia però è rassicurante perché è quella di Gramsci: incapsulare l’antagonismo in una visione più ampia, quella dell’egemonia. Inventare il futuro analizza i limiti delle attuali lotte emancipatorie, passa in rassegna i meriti del neoliberismo, riprende un vecchio termine caduto in disuso, la libertà positiva illuminista, e chiude con un programma politico vertiginoso: piena automazione, piena disoccupazione, reddito universale. Un programma transgenerazionale, proprio com’è stato il neoliberismo. Ma per farlo si devono abbattere diversi totem.

Il primo è l’avversione per l’economia-mondo, sinonimo di capitalismo tanto quanto lo è «etica protestante». Seguendo l’insegnamento di Max Weber, si tratta di osservare le simmetrie casuali, i matrimoni felici, più che le colpe e le concause. Ecco la prima torsione controintuitiva: bisogna far divorziare l’economia-mondo dal capitalismo per farla sposare con un altro sistema di produzione.

Il secondo totem da abbattere è l’infatuazione per l’improvvisazione tattica. Se la strategia è gramsciana bisogna misurarsi con la dialettica, quella strategia hegeliana che fa tesoro delle opposizioni per conservarne la negazione. È un lavoro lungo, logorante, ci vuole pazienza. È l’arte della guerra, quella professata tanto da Sun Tzu che dagli yuppie. Come nel Wing Chun, rinfacciare l’energia dell’avversario. Be water my friend. Cita Inventare il futuro: «Solo una crisi – vera o percepita che sia – produce un reale cambiamento. Durante una crisi, le azioni che è possibile compiere dipendono dalle idee che sono disponibili. Crediamo che questa sia la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, e mantenerle in vita e disponibili finché ciò che oggi è considerato politicamente impossibile diventerà inevitabile».

Milton Friedman incontra Lenin. Quindi la seconda torsione dialettica di Inventare il futuro è che bisogna prendere seriamente la cultura egemone. Bisognava prendere seriamente Berlusconi, no? L’antagonismo non paga, o perlomeno confonde reazione con costruzione. La sinistra di oggi, affermano Srnicek e Williams, è ossessionata dall’antagonismo e turbata dall’egemonia.

Questa nevrotica ha un nome, folk politics, di cui Occupy Wall Street è il caso esemplare. Movimenti che rivendicano un’emancipazione rustica, «autentica»: «riduzione dell’ampio e del complesso – si legge in Inventare il futuro –, piccolo è bello, locale è etico, semplice è meglio, permanenza è oppressione, il progresso è finito». Alla base, l’avversione per la mediazione: la rappresentanza è fasulla. Il merito è stato quello di riportare all’attenzione le politiche emancipatorie, smascherando le posture retoriche dietro cui si nascondono violente restaurazioni. Ma non c’è altro. La rinuncia a qualunque intermediazione, l’ossessione per il qui e ora spinge a rinunciare a un elemento fondamentale: l’universalità, quel tutti che deve comprendere tanto gli amici che i nemici. Nelson Mandela spacca per questo. Mentre le folk politics emancipano, sì, ma con un enorme complesso di inferiorità. Creano importanti sacche di resistenza in un deserto cognitivo e ambientale che finirà inevitabilmente per fagocitarle. Essendo localiste, più che cambiare lo stato delle cose le folk politics sono molto efficaci a cambiare chi ci partecipa, a fargli prendere coscienza. Sono il sintomo di un certo grado di disperazione. Una pratica iniziatoria. Una forma di emancipazione individualista. Radicata nel presente, la prospettiva politica è paralizzante, apocalittica. Succede che precludendo il conflitto ci si preclude qualunque trasformazione. Si legge nel Manifesto per una politica accelerazionista: «Dobbiamo finirla con il feticismo di modi d’azione troppo particolari. La politica deve essere trattata come un insieme di sistemi dinamici attraversati dal conflitto, da adattamenti e contro-adattamenti, da strategiche corse agli armamenti».

L’insegnamento di Gramsci è che l’egemonia fa tesoro delle vittorie della controparte. Srnicek e Williams fanno appello a una nuova «finestra di Overton», all’«imitazione» della Mont Pelerin Society. Contro un nuovo Pietro Grasso, un nuovo Fausto Bertinotti, l’avanguardia risiede nell’opposizione alle opposizioni. In parole spicciole: bisogna ammacchiare l’opposizione, farla subdola. Coerentemente, non si tratta di liquidare la folk politics, giammai, al contrario, gli si chiederà di più. si legge nella postfazione di Inventare il futuro: «Sarebbe a questo punto corretto dire che il nostro progetto è quello di costruire una nuova folk politics». All’antagonismo orizzontalista e localista si propone un «ecosistema di organizzazioni». Un antagonismo dialettico. Un’egemonia.

Dopo l’avversione per l’economia-mondo e per l’egemonia, il terzo totem da abbattere è l’etica del lavoro. Se è in gioco la fine della Storia, dei conflitti di classe, se è in gioco la giustizia sociale planetaria, la logica impone la fine del lavoro. Srnicek e Williams riflettono sull’ambiguità di un’«etica del lavoro», quell’Ovosodo di Virzì, quel magone che non va né in su, né in giù. Smantellata la fraternità operaia, le minoranze sono oggi gettate in una poetica della relazione simile a quella descritta da Edward Glissant, quella meravigliosa capacità umana di sublimare una condizione di sudditanza. Così è nato il blues. L’intellettuale martinicano porta a esempio la nave negriera che viaggiava dall’Africa al Nuovo Mondo. Luogo terribile e insieme genesi dell’orgoglio negriero, quello che Homi Bhabha ne I luoghi della cultura riassumeva nell’«estraneità al domestico». Come con la negritudine, Srnicek e Williams sostengono che l’etica del lavoro abbraccia una contingenza arbitraria (la catena fordista) in un amor fati. Ecco la torsione dialettica: lo stato in cui versa il lavoro oggi deve spingere ad approfittarne.

Se il mondo del lavoro oggi determina un’impossibilità sistemica all’universalismo, ragionano Srnicek e Williams, non bisogna sforzarsi di ricostruire un nuovo affratellamento operaio, ma semmai finirlo di smantellare. La strategia deve essere sopraffina. Il fine, l’accelerazione del desiderio capitalista fino a farlo diventare il suo incubo: la liberazione della forza lavoro tramite la distruzione del lavoro. L’intervento è pragmatico. Antropologico: farla finita con il preconcetto che il lavoro emancipa e l’ozio incatena ai vizi. Distruggere la contrapposizione tra cicale e formiche. Lo slogan è: il lavoro non rende liberi. L’indolenza del tempo libero è solo di chi riduce tutto il tempo al lavoro. Spiega Inventare il futuro: «Molte delle attività a cui più ci piace dedicarci richiedono in realtà un impegno enorme: imparare a suonare uno strumento musicale, leggere, socializzare con gli amici, praticare uno sport…».

L’economia-mondo, la strategia egemonica, l’abbandono del lavoro richiedono una concezione della libertà assolutamente aperta, libera cioè dall’ossessione antagonista. Srnicek e Williams la chiamano libertà sintetica. Ereditando la scuola socialista di stampo illuminista, è la libertà di rispetto alla libertà da. Non è mera negazione dell’oppressore, antifascismo, ma sintesi di tre precondizioni: tempo libero, sviluppo tecnologico e sviluppo dell’intelligenza. Quale sviluppo tecnologico? Lasciar lavorare le macchine automatizzando quanti più processi produttivi possibili, rendendo possibile un orizzonte post-lavoro. Si tratta di un doppio intervento, antropologico e tecnico: smantellare il pre-concetto che il tempo libero sia sinonimo di indolenza e investire massicciamente nell’automazione.

Se si vuole un’emancipazione universale il generico siamo tutti uguali non basta più. Lo slogan va ristretto per allargarne l’orizzonte: tutte le intelligenze sono uguali.

Riassumendo, economia-mondo, automazione, egemonia, accelerare la tecnologia oltre il nostro controllo (che accelerazionismo sarebbe, altrimenti). Infine, sviluppare l’intelligenza. Come? Intervenendo sul sistema educativo. L’appello di Srnicek e Williams alla cultura mi ha ricordato quello di Jacques Rancière all’emancipazione intellettuale. Il filosofo francese, nel saggio Il maestro ignorante, racconta la storia di Joseph Jacotot, artigliere, pedagogo e insegnante di retorica d’oltralpe a cavallo della Rivoluzione Francese. Esiliato dai Borboni in Belgio, ottenne dal re dei Paesi Bassi un posto da professore di francese. Lì si trovò di fronte a qualcosa di insolito, l’inizio di una straordinaria avventura intellettuale. La classe a cui doveva insegnare non spiccicava una parola di francese, solo olandese. Un bel grattacapo. Decise così di distribuire un giornale bilingue dell’epoca, Télémaque, con testo olandese e traduzione in francese a fronte. Chiese alla classe di imparare il testo straniero per mezzo della traduzione nella lingua madre e quando giunsero a metà della rivista gli chiese di ripetere incessantemente quanto avevano appreso. Raccontano Félix e Victor Ratier nel Journal de philosophie panéstique: «Si aspettava orrendi barbarismi, forse financo un’incapacità assoluta, non importa! Bisognava verificare ove li avesse condotti questa via aperta del caso, quali fossero i risultati di un tale esperimento disperato. Quanto fu sorpreso egli stesso di scoprire che quegli allievi, lasciati a se stessi, s’erano tratti da tale difficile prova altrettanto bene di quanto avrebbero potuto molti francesi?».

Jacotot era implacabile. «Il folle – il fondatore, come lo chiamano i suoi seguaci – entra in scena con il suo Télémaque – un libro, una cosa. Prendi e leggi, dice al povero. Non so leggere, risponde questi. Come potrei comprendere quanto vi è scritto sul libro? – Come hai compreso ogni altra cosa fino a questo momento: paragonando due fatti. Ecco, ti dico un fatto: Calypso ne pouvant se consoler du départ de Ulysse. Ripeti: Calypso, Calypso ne… Ecco ora un secondo fatto: le parole sono scritte là. Non riconosci nulla? La prima parola che ho pronunciato è Calypso, non sarà allora anche la prima scritta su un foglio? Guardala bene, fino a che non sarai sicuro di riconoscerla sempre tra una folla di altre parole. A tal fine è necessario che tu mi dica tutto ciò che vedi. Vi sono là dei segni che una mano ha tracciato sulla carta, di cui una mano ha assemblato gli stampi in stamperia. Raccontami questa parola […]. Raccontami la forma di ogni lettera nello stesso modo in cui descriveresti le forme di un oggetto o di un luogo sconosciuto. Non dire che non puoi. Sai vedere, sai parlare, sai mostrare, puoi ricordare. Cos’altro serve? Un’attenzione assoluta per vedere e rivedere, dire e ridire. Non cercare di ingannarmi e di ingannarti. È davvero questo ciò che hai visto? Cosa ne pensi? Non sei forse un essere pensante? O credi forse di essere tutto corpo?».

Per far venire all’esistenza gli emarginati, gli inesistenti – per dirla con Badiou – senza innamorarsi della minoranza bisogna essere dei maestri ignoranti. Il punto di partenza, secondo Rancière, è che se si vuole un’emancipazione universale il generico siamo tutti uguali non basta più. Lo slogan va ristretto per allargarne l’orizzonte: tutte le intelligenze sono uguali.

Assaporate questa affermazione, è un miracolo dialettico, sussume il generale (tutti) sotto il particolare (intelligenza) realizzando un giudizio riflettente: tutte le intelligenze sono uguali. Un miracolo socratico. L’ignoranza dell’oggetto e la conoscenza dello strumento spingono all’autoemancipazione. Di nuovo, l’avanguardia. È un paniere dove risiedono tanto le proposte di sbarramento educativo per chi vuole votare quanto una democrazia a sorte: in entrambi i casi si presuppone l’emancipazione delle intelligenze. «Emancipazione – affermano Srnicek e Williams – non significa staccarsi dal mondo come un’anima libera: significa edificare e prendersi cura dei giusti legami».

La torsione dialettico-egemonica, la questione strategica di Inventare il futuro chiama in causa quella capacità di cooptare senza totalizzare, convertire senza ammaliare, convincere maieuticamente. Lasciare che la gente ci arrivi da sola, costringendola però. È una pratica utopica, quella che Srnicek e Williams chiamano educazione del desiderio.

Ed eccoci, quindi, nello scivoloso terreno del populismo. Se qui si tratta di rendere popolare la politica emancipatoria, di creare meme pertinenti, allora non si scappa: si tratta di propaganda, di costruire consenso, di essere populisti. Scrivono Srnicek e Williams: «Con “populismo” non intendiamo una specie di cieco movimento di massa, né una rivolta dai contenuti generici quanto approssimativi, e meno ancora un contenuto politico in particolare. Piuttosto, qui per populismo intendiamo quella logica politica secondo cui differenti identità vengono riunite assieme contro un avversario comune nel tentativo di ottenere un mondo nuovo».

Come con l’emancipazione intellettuale, che accontenta tanto i fautori della democrazia a sorte quanto quelli dello sbarramento elitario, il populismo qui ritrova una sua autenticità. Se in passato era la fabbrica a omogeneizzare l’eterogeneità delle istanze, oggi il luogo indicato da Srnicek e Williams dove sperimentare una comunità emancipante è la cultura cibernetica. E se le istanze sono eterogenee a quel punto il nemico non è più ingombrante, si lascerà semplicemente assorbire. Il populismo di Srnicek e Williams somiglia più alla divulgazione che alla semplificazione. Per esempio, ritengono che l’astrattezza della finanza vada affrontata; o per smontarla definitivamente, o per renderla comprensibile una volta per tutte: «Una maggiore competenza economica generale non produrrebbe solo una trasformazione delle consuetudini degli economisti accademici, ma renderebbe anche l’economia comprensibile a chi specialista non è: le più sofisticate analisi delle tendenze dell’economia vanno cioè messe in relazione con le intuizione e le esperienze della vita di tutti i giorni». C’è bisogno di un Piero Angela dell’economia?

Economia-mondo, automatismo, libertà sintetica, populismo. Il quadro è chiaro: bisogna rischiare. Rischiare di incorrere nel madornale errore di inizio XX secolo, quello totalitario. Come scongiurarlo? Ovviamente, con un’altra torsione dialettica, quella che i totalitarismi non hanno fatto: amare la modernità, abbandonando quello che in realtà già pratichiamo spericolatamente; un decadente autocompiacento del postmoderno, cioè l’amore per la tarda modernità. Se si deve spingere sull’accelerazione, evitando il rischio, com’è accaduto col futurismo, di sbattere contro un rigurgito restauratore, bisogna voler bene alla modernità, all’artificio, ai cambiamenti epocali decennali.

Per Inventare il futuro il rischio è implicito ad ogni trasformazione, perché la posta in gioco è alta. Se andiamo verso un distopico baratro ambientale, pretendere di cambiare le cose senza prendersi dei rischi è la peggiore delle irresponsabilità. Evitare il rischio è accontentarsi del locale mentre fuori imperversa l’apocalisse. Al contrario, qui si tratta di affiancarsi al capitalismo, sorridergli beffardo e accelerare quelle risorse tecnologiche che riduce a gadget, sfruttare i dispositivi che crea ma non inventa – e che, osservano causticamente Srnicek e Williams, sono evidentemente finanziati dallo Stato. Gli autori di Inventare il futuro pongono tre torsioni dialettiche dei dispositivi: la scarsa specializzazione determina la condivisione degli impieghi (ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni), il taglio ai posti di lavoro manifesta la superficialità del lavoro umano, infine la rete di controllo potenzia i processi decisionali collettivi. Eppure la scarsa specializzazione distrugge la coesione, i tagli ai posti di lavoro gettano nella disperazione e i dispositivi di controllo ci rendono schiavi narcisi. Inventare il futuro chiede di andare oltre le modalità d’uso e liberare le potenzialità inespresse, scovare i poteri occulti e liberare le forze progressiste dei dispositivi. Non è una pratica assoluta ma certamente qualcosa da praticare molto più spesso di quanto facciamo. Sulla tecnologia l’approccio di Srnicek e Williams è riorientante: né primitivista (la tecnologia è il male), né disgiuntivo (prima l’uguaglianza, poi la tecnologia), né inventivo (tecnologie emancipanti sono di là da venire).

La sinistra accelerazionista la modernità la vuole, la ama, la brama. Siamo in un territorio inquietante ma, se l’accelerazione è autentica, l’orizzonte che si schiude è sconosciuto e sublime.

Nel regno del rischio bisogna lasciar stare le Maiuscole. Niente Immaginario, Simbolico. Piuttosto, seguendo la prospettiva filosofica di Badiou (vedi il seminario Il secolo), si tratta di tornare ad appassionarsi al reale invece di arrendersi al realismo. Tornare a trasformare la realtà, profondamente. La ripresa delle cause perse, per dirla con Žižek. Purtroppo, l’unico caso storico di passione del reale che abbiamo sono i totalitarismi del XX secolo. Come loro, anche la sinistra accelerazionista ambisce a trasformare l’esistente. Ma la similitudine finisce qui. Agli antipodi di quelli, la sinistra accelerazionista la modernità la vuole, la ama, la brama. Siamo in un territorio inquietante ma, se l’accelerazione è autentica, l’orizzonte che si schiude è sconosciuto e sublime. La prospettiva è trans-umana: un’umanità che si gode il tempo libero sotto la spinta dell’evoluzionismo tecnologico. Contro la paura del rischio si ricordi la terribile verità del saggio «horror» Al di là del principio di piacere di Sigmund Freud. L’atto di esistenza dell’organico, sostiene il padre della psicoanalisi, è una pulsione continua contro l’ambiente esterno che porta necessariamente, prima o poi, al collasso. Morire non è altro che la resa a questa fatica perenne dell’esistere. Che si rassegnino i cosmisti russi (a meno che non si trovi un modo per eliminare i meccanismi di consumo alla base della vitalità).

Certo, questa passione del reale, come ci mostra Thomas Ligotti, può spingerci ad accelerare al più presto un annichilimento auspicabile. È qui che una politica emancipante e una totalitaria possono sfumare, è qui che ci si spaventa. La passione del reale produce mostri. Ma se si vogliono cambiare le cose in meglio, per tutti, non si può evitare il rischio, questa è la verità. Scrivono Srnicek e Williams: «Secondo un’interpretazione particolarmente severa, il principio precauzionale serve a convertire l’incertezza epistemica per preservare lo status quo, invitando coloro che vorrebbero costruire un futuro migliore a desistere dal loro intento […]. Il tentativo di rimanere estremamente cauti – e dunque di eliminare i rischi – denuncia una miopia riguardo ai pericoli prodotti dall’inattività e dall’omissione».

Inventare il futuro è un testo gramsciano, tecnologista, strutturalista. Interviene sulla paura atavica della sinistra di sposare la modernità, scongiurando la deriva autoritaria sul piano dialettico, sull’imprevedibilità degli effetti. La strategia è una violenza al nostro senso comune: antagonismo belligerante, plausibilità e piattaforma (tecnologica). Il programma affascinante: automazione, riduzione delle ore di lavoro, reddito base e rivoluzione culturale.

In un mondo profondamente ingiusto, dove la redistribuzione della ricchezza è paurosamente sproporzionata, agire senza rischi è accettare queste condizioni come naturali, contingenti, necessarie. Lo sfruttamento e l’accelerazione dei consumi sono sì connaturati alla specie dominante, ma questo non vuol dire che lo sfruttamento e il consumo debbano essere gli aspetti preponderanti della vitalità. La tecnologia ci mostra che da questo aspetto terribile della natura ci si può distanziare (liberare?). L’implicito filosofico di Inventare il futuro è che se la vita si consuma per protrarre la sua esistenza, bisogna allora spingerla alla contemplazione, al virtuosismo artistico, al tempo libero: alla natura totalizzante della sopravvivenza si contrappone una visione estatica ed estetica.

Lo slancio verso il futuro ha l’impatto di un buco nero: presuppone una singolarità, l’impossibilità di sapere, come quando Jacotot piazza Télémaque di fronte agli allievi olandesi. Come a dire, qui finisce la nostra episteme, in attesa dell’automazione. Ridateci la modernità! Un appello non così dissimile da quello di Marinetti, noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. Perché dare per scontato che questa narrazione debba avere sempre lo stesso finale? I totalitarismi non insegnano che è proprio quando si rinuncia alla modernità che si generano mostri?

Piuttosto, l’hic sunt leones di questa cartografia politica è l’evoluzionismo implicito all’accelerazionismo. Se è in gioco il superamento di alcune contingenze ideologiche camuffate per contingenze naturali (Nietzsche lo chiama superamento della moralità), se si tratta di superare una certa condizione umana (Nietzsche lo chiama super, o oltre, uomo), verso quale evoluzione andremo? Se si tratta di liberare le forze della modernità tappate dalla logica del profitto e dell’accumulazione, se si tratta di transumanesimo, bisogna aprire uno spazio di riflessione sull’evoluzionismo e la selezione naturale. Quale selezione naturale comporterà l’accelerazionismo?

Paolo Bosso è nato nel 1983 e vive a Napoli. È redattore di Informazioni Marittime. Ha scritto per Repubblica e Nazione Indiana, collabora con Corriere della Sera e il Post.