Lucrezia Reichlin su Donald Trump

Trovo un commento di Lucrezia Reichlin sulla futura politica economica di Trump, che molti hanno erroneamente visto come una politica neo-keynesiana. Il commento era su Dagospia.it il 13 novembre 2016, che citava il Corriere della Sera.

La vittoria di Trump genera incognite su tutti i piani, da quello economico a quello geopolitico.

Su un aspetto del suo programma economico, quello delle politiche di bilancio, sembra però che ciò che Trump vuole fare sia più vicino ai programmi dell’ ala progressista del partito democratico che alla tradizionale posizione conservatrice. Ma le cose non stanno così.

Trump ha dichiarato di volere spendere un trilione di dollari (mille miliardi) in infrastrutture per stimolare la crescita. Ed è vero che, con questa proposta, l’ outsider, inviso alle élite politiche e intellettuali, sembra paradossalmente sposare una visione keynesiana della politica economica, vicina al “nuovo consenso” oggi creatosi tra accademici e esperti, incluso il Fondo Monetario Internazionale.

“Nuovo consenso” perché rivaluta lo strumento di spesa pubblica finanziata a debito ai fini della stabilizzazione dell’ attività economica. Jason Furman, il capo del consiglio economico di Obama, per esempio, scrive recentemente che quest’ ultima è uno strumento con il debito ed è uno strumento potente per far fronte alla bassa crescita associata a tassi di interesse e inflazione vicini allo zero che caratterizza le economie avanzate di oggi.

Una bella differenza di vedute rispetto al consenso precedente, nato tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, secondo cui la spesa pubblica finanziata a debito ha effetti incerti sull’ attività economica o addirittura negativi poiché, causando un aumento dei tassi d’ interesse, disincentiva la spesa privata.

Keynes è di nuovo popolare. Ma ha conquistato anche Trump? Dopo otto anni di quantitative easing e con i tassi di interesse vicini allo zero c’ è certamente meno fiducia sulla efficacia della politica monetaria e in molti ormai pensiamo che lo strumento fiscale debba essere usato in coordinamento con essa. Ma andiamo a vedere meglio il programma del presidente eletto. Corrisponde a questa visione?

Il Comitato per la responsabilità di bilancio calcola che nei prossimi dieci anni la Trump-economics implicherà un deficit di 5,3 trilioni di dollari spiegato da 5,8 trilioni di diminuzione delle tasse e da 1,20 di diminuzione della spesa primaria. Un deficit elevato quindi, ma generato da un piano molto più reaganiano che keynesiano.

Infatti, da quello che si capisce dalla discordante informazione della campagna e dalle dichiarazioni recenti, il trilione di investimento in infrastrutture non sarà spesa pubblica ma in parte generato da partnership pubblico-privato e alimentato da crediti all’ imposta.

Molti ritengono questo irrealistico, un messaggio elettorale con poca sostanza. Il credito d’ imposta rende più profittevoli i progetti esistenti, ma non è sufficiente a stimolare investimenti nelle aree più povere dove la redditività è più bassa. Se ne deduce che per arrivare a spendere un trilione si dovrà mobilitare la spesa pubblica e in quel caso il deficit supererà i 6 trilioni. Difficile immaginare che un Congresso e un Senato a maggioranza repubblicana possano approvare una misura del genere.

È molto probabile, invece, che quello che resterà delle roboanti dichiarazioni elettorali sarà un massiccio taglio alle tasse il cui costo si stima essere di circa 440 miliardi annui, più del doppio dei tagli fiscali di Reagan del 1981, più del quadruplo di quello di George Bush del 2001. Ma questo non ha niente a che fare con il nuovo consenso sugli effetti keynesiani della politica fiscale.

I tagli di Reagan e Bush, come quelli di Trump, sono giustificati da fantasiose stime sui loro effetti di stimolo all’ offerta (incentivi alle imprese), non dal loro potenziale effetto di sostegno alla domanda di consumo e investimento. Ricordiamo che quando, all’ epoca di Reagan, quegli effetti di offerta si rivelarono essere molto minori delle aspettative e generarono deficit invece della attesa crescita, la politica economica cominciò ad enfatizzare sempre più la disciplina di bilancio fino a introdurre negli anni seguenti un tetto legale al debito pubblico.

Per questo non bisogna confondere il piano di Trump con un nuovo keynesismo. È il suo contrario. Ed è possibile che, come nel passato, il deficit che genererà porterà ad una maggiore enfasi sul consolidamento fiscale, una stretta sui conti pubblici a scapito della spesa che avrebbe dovuto agevolare la crescita.

Nonostante quindi il «nuovo consenso» tra economisti e esperti indichi la necessità di combinare politiche attive di stabilizzazione attraverso il bilancio pubblico con quelle monetarie effettuate dalle banche centrali, si va nel senso opposto: negli Usa per via della svolta conservatrice e in Europa, per i vincoli del patto di Stabilità. La conseguenza è che le banche centrali continueranno ad avere il monopolio delle politiche di stimolo all’ economia. Questo avverrà nonostante sia ormai chiaro che la politica monetaria da sola non ce la può fare, specialmente quando i tassi d’ interesse sono a zero, i bilanci delle banche centrali già gonfi e, quindi, di fronte a possibili avvenimenti avversi, gli strumenti d’ intervento limitati.

In un dibattito politico che si è involuto in battaglie demagogiche, chi oggi chiede giustamente misure aggressive per la crescita e crede di essere stato ascoltato, è destinato ad essere deluso.