Dialogo

Verità, libertà, giustizia
Queste tre parole hanno causato paradossalmente le più grandi tragedie dell’umanità nella sua Storia. Paradossalmente perché, secondo la mia visione, non significano assolutamente nulla.
Senza entrare in modo troppo profondo in interessanti discussioni filosofiche, possiamo infatti notare che ognuno di noi ha un’idea diversa di cosa sia la verità, di cosa sia la libertà e di cosa sia la giustizia. E nessuno, finora, è riuscito a trovare una formula che abbia validità assoluta, ovvero che sia condivisa da tutti, nemmeno dalle più grandi menti che la Storia ci abbia fornito. Basta prendere l’esempio della giustizia. Kelsen ha mostrato stupendamente che in realtà tutti i tentativi più autorevoli di definire cosa sia la giustizia (Platone, Cristo, Kant, Marx) finiscono per descrivere semplici tautologie.
Questa situazione è drammatica, poiché nel momento stesso in cui un gruppo politico, religioso o in genere sociale si richiama alla libertà, alla verità o alla giustizia per giustificare le sue idee o le sue azioni sta in realtà cercando di catalizzare l’attenzione su un contesto di senso implicito, solo fintamente accettato da chi ascolta.
Dove non si riesce ad assolutizzare un concetto, infatti, si discute di sentimenti. Individuali, difficilmente gestibili. Per questo si può quindi parlare di quello che io sento come libertà, come verità, come giustizia. Ma non di quello che tutti sentiamo. Questa situazione provoca un’impasse politica, perché per l’elettore è molto accogliente sapere che il suo partito lotta per la “libertà”, per la “giustizia”, consapevole di agire all’interno della “verità”.

Il confronto come uscita dall’impasse
Dove il contenuto crea problemi, si prova a fuggire nella forma. Io, consapevole che anche le regole formali in realtà sono sostanza, penso un modo interessante per minimizzare questo impasse sia pormi in una situazione dialogica con chi la pensa in modo diverso da me.
Questo pensiero metodologico fa sì che io non pensi mai di avere ragione rispetto a quello che dicono gli altri, quanto piuttosto cerco di capire perché io sono arrivato ad una data conclusione e l’altro ad un’altra.
Quando discuto, quindi, cerco sempre di capire se le affermazioni fatte si basano su fatti o su sentimenti. Si parla di fatti quando ci sono numeri (che sono anche loro, ahimè, relativi, ma consentono di parlare su una base di senso condivisa dalla stragrande maggioranza dell’umanità) alla base di ciò che si dice. Si parla di sentimenti quando di numeri non ce ne sono.
Quello che è necessario fare è allora destrutturare ciò che una persona ha detto, classificarla e ordinarla, per porsi poi in ottica critica su quanto ottenuto. In questo modo, se entrambe le posizioni in dialogo si comportano in questo modo, si può capire se un’affermazione deriva dai numeri, e quindi è potenzialmente condivisibile, o dai sentimenti. Quando arriva dai sentimenti non si può pretendere che l’affermazione sia condivisa.
Ma almeno è stato esplicitata la sua natura, ovvero quella di affermazione non assoluta, ma individuale.