Viva Mussolini!

È vero, abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore, avessi vinto tu io sarei ancora in carcere” disse il partigiano Foa all’ufficiale fascista della X Mas Pisanò. Oggi in Italia frasi come queste non sono più simbolo di una memoria collettiva dominante. Negli ultimi 20 anni la politica di destra ha infatti sistematicamente permesso di rielaborare la Storia in chiave revisionista, basandosi massimamente su assunti storici fasulli.

L’ultimo libro di Aram Mattioli, stimato professore di Storia italiana del XX secolo all’università di Lucerna, ha un titolo volutamente forte: “Viva Mussolini!” La guerra della memoria nell’Italia di Berlusconi, Bossi e Fini, tradotto e edito da Garzanti nel 2011 (227 pagine). Si tratta di una fortissima ricerca scientifica di uno storico che scrive in modo efficace e comprensibile sul passato fascista sdoganato in Italia negli ultimi 20 anni da governi pieni di neo- e postfascisti guidati dal Primo ministro Silvio Berlusconi.

Utilizzando fonti convenzionali (libri, giornali, testimonianze, film) e innovative (social media, youtube, …) l’autore mostra come sia normale oggi imbattersi in Italia su opinioni che sostengono che il regime fascista fosse una dittatura all’acqua di rose; che il vero errore di Mussolini sarebbe stato d’essere accondiscendente con i tedeschi ed emanare le leggi razziali nel 1938, ma prima avrebbe fatto tanto bene portando il Paese alla modernità; che gli italiani fascisti erano “brava gente”, invece dei “cattivi tedeschi” e dei “sanguinari titini”. Tutte tesi contestate sistematicamente da Mattioli, che però da buono storico critica anche la master narrative (ovvero tutti i discorsi pubblici sul passato che seguono un copione “drammaturgico” prefissato) dei vincitori e della sinistra che ha permesso per decenni di leggere la Storia in modo parziale. L’assenza di tribunali internazionali, l’amnistia data dal comunista Togliatti e la forte presenza di convertiti (dal fascismo) nelle forze partigiane han permesso che si identificasse solo nell’appoggio ad Hitler la vera immagine negativa del regime.

Banalizzando Mussolini come un poveretto e imponendo una damnatio memoriae totale, il fascismo venne liquidato come esperimento sociale e la Liberazione venne intesa come vittoria sui nazisti e sui collaborazionisti italiani. I tedeschi erano diventati il grande alibi e la Resistenza il mito fondante dello Stato.

Con la progressiva scomparsa dei protagonisti della Liberazione, con la caduta del muro di Berlino e con l’arrivo di Tangentopoli, che ha spazzato via i partiti storici basati anche sull’antifascismo e sulla narrativa resistenziale, il mito si è indebolito. La mancanza di elaborazione collettiva del periodo fascista e l’uso scriteriato, unico in Europa, che Berlusconi ha fatto degli ambienti di destra ha permesso infine che gli argini venissero rotti.

È proprio qua che il fine storico Mattioli ci ricorda perché il fascismo non può essere banalizzato, nemmeno nella sua fase iniziale, quando l’Italia era ancora distante dai tedeschi. È proprio qua che Mattioli si schiera in aperta contrapposizione con la narrazione di De Felice e di Montanelli, che hanno per decenni trasmesso un’immagine edulcorata del regime, negando l’ideologia razziale e la violenza sistematica. E che hanno sdoganato Mussolini come un “buon uomo”, un politico che ha dovuto decidere contro la propria volontà, costretto dalle circostanze, un “italiano di ferro con le sue debolezze”, un cuore tenero e buon padre di famiglia (senza però ricordare che fece passare per pazzi un’amante e un figlio e li fece rinchiudere in manicomio). E che hanno indirettamente preparato il campo alla revisione dei fatti storici.

Il fascismo era un sistema intrinsecamente basato sulla violenza collettiva e sull’idea dell’espansione (oltre che sull’oppressione dei nemici politici e sulle promesse di benessere sociale). Il Paese esplose in un inno di giubilo all’annuncio della fondazione dell’Impero, ma chi sa che l’Italia fu la prima nazione europea a infrangere il divieto di guerra di aggressione dopo l’instaurazione del sistema di sicurezza collettivo imposto nel diritto internazionale?

L’Italia mussoliniana si è macchiata dei più gravi crimini contro l’umanità nelle colonie. Dove la destra racconta (ma anche molti a sinistra lo pensano, purtroppo) che gli italiani portarono civilizzazione e modernità in Africa, la storiografia ci dice altro. Usando prove su prove, è dimostrato che in Libia i massacri (nell’ordine delle 100'000 persone) furono simili a un genocidio, vennero bombardati persino i profughi. L’esercito fascista, sotto diretto ordine del duce, usò in Etiopia armi di distruzione di massa, già allora vietate dalle convenzioni internazionali. “È una mattanza”, riferì la Croce Rossa, una definizione che spiega le oltre 400'000 vittime del corno d’Africa. Già nel 1936 Mussolini ordinò al viceré “una politica del terrore e dello sterminio” ed effettivamente furono istituiti campi di sterminio e operazioni di pulizia etnica. Il discorso non fu diverso per la conquista della penisola balcanica, dove i fascisti, in piena violazione del diritto di guerra, ordinarono di andare direttamente contro la popolazione civile. Terribili le parole di Mussolini ai soldati: “Ho sentito dire che siete dei buoni padri di famiglia. Ciò va bene a casa vostra: non qui. Qui non sarete mai abbastanza ladri, assassini, stupratori”. Vennero creati almeno 50 campi di concentramento italiani e si stimano tra le 250'000 e le 400'000 persone ammazzate tra Jugoslavia e Grecia.

Dire che l’Italia divenne brutale a causa dei tedeschi è quindi misconoscere totalmente la ricerca storica, altro che colonialismo dal volto umano! Le vittime chiesero infatti l’istituzione di tribunali internazionali dove si potesse far luce e giustizia sulla dittatura fascista, che ha sulla sua responsabilità almeno 1 milione di vittime e che è stata una dittatura razzista ben prima di deportare migliaia di ebrei verso Auschwitz. Gli inglesi si opposero però a questa soluzione, guidati da opportunismo geo-politico (l'Italia non poteva essere presa dal blocco comunista) e una coscienza non del tutto pulita nei confronti delle colonie.

L’assenza di un tribunale per i crimini italiani è stata quindi ancora peggio dell’amnistia concessa dai comunisti: il regime di Mussolini non poté essere ricordato come sanguinario regime di sterminio di massa e le ripercussioni della comunità internazionale sull’Italia a Parigi nel 1947 vennero addirittura vissute in patria come “smacco”, come “diktat”. Una memoria tronca, questa, che venne rafforzata dalla lettura di Montanelli e De Felice sul periodo fascista, che segnalavano nelle leggi razziali del 1938 una rottura con le tradizioni e la mentalità del popolo italiano. Un’assoluzione morale insomma, che negava atti razzisti all’ordine del giorno contro africani e slavi.

Un’assoluzione che permette oggi ai revisionisti di celebrare quei “buoni fascisti” che rifiutarono l’antisemitismo e che sono issati a bandiera di molti neo- e postfascisti. Che riescono così a smarcarsi e a falsificare la vera natura di un regime indifendibile a prescindere dalle leggi razziali, regime su cui c’è una nebbia di inconsapevolezza diffusa nell’opinione pubblica. Mattioli spiega bene come l’assenza di coscienza di questa verità storica, aggravata da una rimozione successiva (come l’autocensura di film quali “Il leone del deserto” o “Fascist legacy”) del periodo di occupazione nelle colonie, sia stata fondamentale per il recupero del revisionismo.

L’analisi delle idee sdoganate dagli alleati di Berlusconi non si limita comunque a spiegare perché il fascismo fu un regime sanguinario. Ci sono fenomeni politici come Forza Nuova, La Destra e altri che vanno infatti oltre alla banalizzazione del Ventennio e pretendono addirittura una riabilitazione collettiva del periodo della Repubblica Sociale Italiana di Salò. Un tema ostico, anche perché la master narrative resistenziale impose una vera e propria rimozione dalla memoria pubblica sulla guerra civile che impazzò in Italia dal 1943 al 1945 tra partigiani e repubblichini. Oggi i revisionisti hanno quindi più facilità a trasmettere una narrazione che travisi la realtà storica.

Salò fu una violenta repubblica della morte, che deportò migliaia e migliaia di ebrei, possibile solo perché fu un reggimento fantasma alla mercé di Hitler. I neofascisti hanno purtroppo vita facile a sdoganarla come ultimo baluardo anti-tedesco, come sacrificio patriottico, chiedendo quindi la riabilitazione dei combattenti repubblichini, dei “bravi ragazzi”. Senza ricordare che se Salò nacque era proprio perché i tedeschi la vollero, creando una repubblica fantoccio, una versione nazista del fascismo.

La rilettura storica del ruolo dei repubblichini, come peraltro la commemorazione delle foibe, vero cavallo di battaglia degli ultimi anni dei revisionisti, non possono essere compiute con l’unico scopo di ridarsi un velo di moralità e farne quindi strumentalizzazione politica. Se si parla di RSI bisogna parlare anzitutto di collaborazione a fianco della Whehrmacht e delle SS. Se si parla di Jugoslavia bisogna premettere le centinaia di migliaia di vittime fatte dai crimini di guerra del fascismo. La damnatio memoriae e il romanticismo della Resistenza vanno sì superati, ma non possono essere sostituiti da una pacificazione monodirezionale dei neofascisti per cui si re-inventano i fatti e i contesti storici. Questo è però successo negli ultimi 20 anni, tollerato dalle massime autorità politiche e incentivato da una narrazione pubblica edulcorata

Le politiche della memoria della destra, ci ammonisce Mattioli, sono state capillari e inostacolate. Nonostante l’apologia del fascismo sia ancora reato in Italia, esso non è più perseguito. In televisione definirsi fascista non provoca indignazione, come non lo fa sui campi di calcio o nei salotti buoni davanti a una coppa di champagne. La toponomastica sta vivendo dei veri e propri assalti; l’architettura del ventennio (anch’essa inizialmente oggetto di damnatio memoriae) viene rivalutata solo in senso estetico, spogliandola del suo contenuto imperialista e razzista; le feste di commemorazione sono viepiù messe in discussione con l’obiettivo di instaurare nuovi momenti di ricordo anche a favore dei criminali di guerra.

D’altronde se il capo del Governo ammette postfascisti che non hanno rinnegato la dittatura tra le file dei suoi ministri, come si può pretendere che si sia immuni al revisionismo nella società di base, scossa dagli scandali dei partiti storici e dalla fine dei due blocchi?

La ricerca storica, che peraltro da anni sta riscoprendo la natura del regime di Mussolini, è stata messa ai margini e ciò sta permettendo di offuscare la cruda realtà di un fascismo intrinsecamente legato alla violenza collettiva. Ma Berlusconi, che non è un fascista, ha capito che tutto ciò poteva giocare a suo favore. Approfittando anche del silenzio della Chiesa, non si è distanziato dai suoi alleati e ha minimizzato dove non era il caso di farlo, usando anzi il revisionismo anche come collante della sua coalizione, unica in Europa con esponenti dichiaratamente neo- e postfascisti.

Il libro di Mattioli scaraventa l’immagine banale che un giovane come me può avere a proposito del Ventennio nero in un vortice di domande. Ciò che dice è “contro” e esterno alla narrazione pubblica oggi in auge. Ci spiega cosa sta succedendo in Italia e perché non dovrebbe succedere. Il suo modo di riportare l’analisi storica e l’analisi del presente è coinvolgente e convincente, molte fonti che cita sono direttamente osservabili in internet, così da non rimanere avvolti nel classico velo di nebbia scientifica. Ma soprattutto “Viva Mussolini!” ci obbliga a porci domande scomode su noi stessi e sulla lettura negata del passato di alcune delle nostre famiglie, che in fondo quel periodo fascista l’hanno vissuto in pieno.

F.C. – 8.8.2012

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