Verso la “società del tempo scelto”

Recensione del libro:
André Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, manifestolibri 1998
(v.o. Misère du présent, richesse du possible, Galilée 1997)

Il libro e il suo autore

Inquadriamo Gorz. Nato nel 1923 e morto nel 2007, viennese, era una voce importante dell’esistenzialismo marxista. Seguì inizialmente le orme di Sartre, scriveva sulla rivista “Les Temps modernes” e il suo pensiero scavò nel profondo della comprensione della coscienza e dell’autonomia individuale. Decisiva fu la sua critica allo strutturalismo. Visse infine un’evoluzione verso la critica ecologista, rifiutando quindi tanto il produttivismo quanto il collettivismo.

Il suo libro è rigoroso, la sua divisione in 4 parti segue uno schema storico. L’analisi del cambiamento dallo “Stato sociale” allo “Stato del capitale” avvenuto nel ‘900 funge da introduzione contestuale. Evidenzia quindi in modo limpido il suo modo di vedere il sistema economico “post-fordista” per arrivare infine ad un’esposizione sul cambiamento che questo sistema ha provocato nei “valori” sociali. Gorz conclude spiegando come adeguare il sistema economico (sociale) a questo nuovo sistema di valori, uscendo quindi compiutamente dalla “società salariale”.

Nella mia recensione non seguirò necessariamente questa sua impostazione espositiva, vorrei piuttosto concentrarmi su alcuni punti cardine del suo pensiero, che si possono trovare dispersi fra le pagine del libro e che compongono una unità di pensiero particolarmente affascinante.

 Oggi: il post-fordismo

Partiamo dall’oggi. Che “società” vede oggi (o meglio: 15 anni fa, ma le sue considerazioni paiono ancora attualissime!) il filosofo francese? Per Gorz la società contemporanea è, in linea con l’analisi marxista classica, una società capitalistica. Dominano nel suo pensiero (e nel suo lessico) i concetti di “classe”, di “conflitto tra capitale e lavoro”, di “forze produttive”.

In questa società d’oggi, post-fordista, per Gorz il capitale ha vinto il conflitto, è riuscito a prendere il sopravvento sul lavoro e lo ha annichilito. Ha preso la sovranità territoriale (ovvero la possibilità di dominare la politica con la semplice minaccia di “spostarsi altrove”) e grazie allo sviluppo tecnologico avrebbero ottenuto un aumento produttivo tale che il lavoro dovrebbe semplicemente essere dichiarato inutile.

Attenzione: Gorz usa un concetto molto rigido di “lavoro”. È per lui lavoro monetizzabile (lavoro-merce), quello che avrebbe inventato e imposto il capitalismo manifatturiero dal 18° secolo. Sostiene che questo lavoro stabiliva un legame sociale astratto e debole fra gli individui, li inseriva semplicemente nel “macchinario economico” senza dare dignità né interesse intrinseco. L’integrazione per Groz si aveva quindi solo nella “classe” e nel sindacato, così da creare identità e cultura. Ma contro questa organizzazione l’impresa sarebbe riuscita a trovare l’arma assoluta: l’individualizzazione e la discontinuità del lavoro.

Dalla necessità di avere un salario a fine mese, indipendentemente dal lavoro, con l’avvento del post-fordismo oggi il cittadino si ritrova nella necessità di avere un impiego tout-court, senza nemmeno poter interessarsi all’ammontare del salario. Il lavoro oggi non identificherebbe più quello che si fa, ma qualcosa che si ha o non si ha. Da qui la micidiale costatazione che “ormai non è il lavoro a creare ricchezza, ma è la ricchezza (degli altri) a creare lavoro”. Una realtà che provoca delle distorsioni plateali, per cui non è l’individuo che si rende “utile” lavorando, ma è la società che si rende utile trovando al singolo modo di lavorare. Ma soprattutto una realtà nascosta: nessuno vorrebbe infatti ammettere che non c’è più lavoro per tutti.

Da qui la sua laconica affermazione: “la società del lavoro è morta”

Non è retorica: prova a farne ricerca scientifica e mostra che il lavoro in fabbrica ha smesso di essere combattivo. Questo perché grazie all’innovazione tecnologica le imprese ormai possono anche assumere solo operai specializzati, spogliati delle loro “identità di classe”, offrendo loro in cambio una “identità di impresa” (corporate identity). Il controllo sul lavoratore sarebbe quindi stato spostato dalla fabbrica (modello fordista) al terreno culturale: nell’educazione, nella formazione, nella città, negli svaghi, nel modo di vita. Per questo il sindacalismo avrebbe perso la sua efficacia, perché il capitale “è uscito” dall’impresa per imporsi in ogni sfaccettatura sociale.

Da qui l’assurdo della società d’oggi: più i lavoratori fissi garantiscono produttività e sviluppo tecnologico, più “producono disoccupazione” perché la quantità di lavoro necessaria si riduce incessantemente. Più le imprese centrali aumentano la produttività, più esternalizzano e creano lavoro periferico saltuario, meno retribuito e meno protetto. Cita i numeri, Gorz, per corroborare le sue tesi. La percentuale di nuovi posti a tempo fisso è crollata, la stragrande maggioranza di nuovi impieghi è di carattere precario. L’impresa non è più “né un collettivo di lavoro, né un luogo di lavoro”. La conseguenza legale è presto detta: il capitale, abolendo il salariato, ha abbattuto i limiti che il movimento operaio era riuscito a imporre allo sfruttamento della forza lavoro.

 La “generazione X”

“Siamo usciti dalla società del lavoro, ma non l’abbiamo sostituita”. I precari non si identificherebbero più con il loro lavoro e anzi la loro “vera” attività sarebbe ormai quella che compiono nelle pause fra i vari momenti lavorativi. E proprio in quegli spazi va a concentrarsi Gorz: “civilizzare e riconoscere, sia un modo di vita scelto, desiderabile e socialmente dominato e valorizzato, fonte di culture, di libertà, di socialità nuova: che diventi diritto di tutti scegliere la discontinuità del lavoro senza subire la discontinuità del reddito”.

La “generazione X” sarebbe un esempio concreto di quanto viene esposto. Si tratta di ampie fasce di giovani che rifiutano il concetto “società del lavoro”. Preferiscono restare disponibili e passano da un lavoro temporaneo ad un altro. Non si definiscono più in rapporto al loro impiego e sostituiscono l’etica del lavoro con l’utilità sociale di ciò che fanno. Non accettano che il lavoro interferisca con la propria vita. C’è disaffezione per la carriera e preferiscono una vita composta da lavoro a tempo parziale e “multiattività”, ovvero un misto fra lavoro d’impiego e lavoro creativo di socialità. L’oppressione dell’impresa che vuole mobilitare l’interezza della persona per il suo profitto viene percepita come un’oppressione totalitaria. Insomma: “la vita è altrove”.

Gorz calca la mano su questo punto: fintanto che il diritto al lavoro sarà considerato come un diritto politico, come la porta d’accesso al diritto ad avere diritti, l’impiego non fisso e non a tempo pieno viene considerato inferiore. La sua soluzione: ridefinire nuovi diritti, nuove libertà e nuove sicurezze collettive. Creare insomma la “società del tempo scelto” e della “multiattività”. Una società in cui l’individuo debba costruirsi da solo la propria identità, liberandosi dalla “gabbia dei ruoli sociali”.

In questi passaggi si nota il Gorz più ideologico, più pioneristico, più provocatore. “La società non esiste più, se si intende con società un tutto coerente che assegna ai suoi membri i loro modi di appartenenza, i loro posti e le loro funzioni”. “La produzione di società non si avrà più principalmente nella sfera economica, né la produzione di sé nel lavoro-impiego”, afferma il filosofo, prendendo il femminismo e l’ecologismo ad esempio di due movimenti che rifiutano l’etica del lavoro e la ragione strumentale (ossia l’uso di uomini come strumenti di scopi stabiliti dal capitale).

 Oltre la società salariale, verso la “società del tempo scelto”

La proposta politica è allora: superare la società salariale. Gorz condanna da un lato la manipolazione del capitalismo che unisce arbitrariamente il bisogno di un reddito con il bisogno umano di agire, dall’altro l’occultazione del capitale che afferma la “mancanza il lavoro” mentre in realtà è la “distribuzione delle ricchezze” a mancare. E ritiene assurdo proporre la “creazione di lavoro” come antidoto alla miseria di oggi. Bisognerebbe al contrario ripartire meglio il lavoro che già c’è e allo stesso modo ripartire meglio tutta la ricchezza socialmente prodotta.

In questo senso diventa centrale nel suo discorso il concetto di “multiattività”, in cui ognuno decide per sé quale posto dare al “lavoro” (inteso, come abbiamo visto sopra, nel senso mercificato) e come conformare il resto del proprio tempo nelle varie attività di creazione sociale e culturale.

Chiaramente la politica deve fare un passo in questa direzione e quindi porre le basi strutturali affinché una tale organizzazione sociale sia concretizzabile. Per questo propone tre spunti: 1. garantire il reddito, 2. redistribuire il lavoro, 3. cambiare le città.

La garanzia del reddito è una questione ormai anche dibattuta in Svizzera, dove è stata lanciata un’iniziativa popolare federale per inserire nella costituzione il diritto ad un reddito di base incondizionato.[1] Gorz ne individua soprattutto due tipi possibili: un “reddito insufficiente” a proteggere contro la miseria e un “reddito sufficiente” che affranchi l’individuo dalle costrizioni del mercato del lavoro.

Il reddito insufficiente (voluto ad esempio dai Chicago Boys) sostituirebbe gli attuali redditi di redistribuzione e sarebbe una sovvenzione pubblica agli impieghi a bassissima qualificazione e debole produttività, quindi non redditizi. Il reddito avrebbe la funzione di creare un secondo mercato del lavoro proteggendo l’economia dai paesi a basso salario e contemporaneamente limitando i diritti dei lavoratori. Questo sistema di workfare è problematico, perché stigmatizza coloro che godono di questo reddito minimo.

Il reddito sufficiente è ben altro ed è in questo senso che si inserisce l’iniziativa popolare svizzera “per un reddito di base incondizionato”. Non sarebbe una forma di assistenza e nemmeno di protezione sociale, sarebbe piuttosto ripartizione del lavoro in modo tale che diminuisca per tutti. Spingerebbe inoltre i lavoratori autonomi a ridurre il loro tempo di lavoro.

Ma soprattutto, e questo punto è probabilmente decisivo in tutta la costruzione teorica di Gorz, si staccherebbe il legame che si vuol far intercorrere oggi tra “valore” e “lavoro”. Il pieno sviluppo delle forze produttive dispenserebbe dal pieno impiego di queste stesse forze e permetterebbe così di fare della produzione un’attività accessoria. In pratica l’economia produttiva sfocerebbe da sola nell’eliminazione del lavoro.

La seconda proposta politica è la redistribuzione del lavoro. Riducendo la quantità di lavoro individuale si potrebbe liberare tempo per esercitare la “multiattività”. Se finora abbiamo assistito semplicemente ad uno spossessamento del potere dei lavoratori sul loro tempo (precarizzazione), la politica potrebbe ora imporre delle strutture che permettano di creare più libertà grazie alla riduzione del lavoro, dando comunque sicurezza agli individui. In questo senso ci sono dei tentativi (proposti in varie regioni europee) di diminuzione del monte-ore individuale che hanno comportato delle minime riduzioni reddituali, ma interessanti aumenti di produttività e di socialità. Insomma: garanzia del posto di lavoro, e quindi flessibilità, senza precarizzazione.

Lo Stato assumerebbe un altro atteggiamento rispetto a quanto fatto finora. Invece di sovvenzionare l’impiego per ridurne il costo salariale, deciderebbe ora di sovvenzionare il non-lavoro accrescendo il potere dei lavoratori. È chiaro: vengono messe in dubbio l’ideologia del lavoro e il concetto di disoccupazione, viene creato il diritto a lavorare in modo discontinuo.

In quest’ottica si situa la terza proposta politica, ovvero il rimodellamento della città. Si potrebbero cambiare le basi del vivere sociale e la struttura degli scambi. Le città dovrebbero essere ripensate per garantire la vita comunitaria senza che la moneta sia la base della quotidianità. L’urbanistica, l’architettura, i trasporti e le attrezzature collettive dovrebbero essere concepiti in maniera da facilitare la policentralità, l’autoattività, gli scambi, la creazione e la cooperazione. Si cerca in sostanza di creare un nuovo habitat.

 Le sue conclusioni

Siamo quindi alla fine del libro. Gorz ha deciso di scrivere intense pagine di marxismo. Marx è profondamente presente nelle sue riflessioni, nei suoi sentimenti, anche se lo cita solo solleticandone alcuni passaggi. Dove Gorz sospira per una “società” possibile, i suoi Grundrisse  (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-58) sono centrali, sebbene indicati con delicatezza. È come se, alla fine di elucubrazioni intense e intransigenti, possa citare Marx in un impeto liberatorio: “Lo vedete che ho ragione? Lo dice anche Lui!” sembra scrivere fra le righe.

L’esercizio non è facile, perché in questa sua riflessione Gorz sa benissimo che si mette contro l’intero, potentissimo e dominante mondo sindacale istituzionalizzato. Marx come momento di rottura quindi, Marx contro i marxisti. Certo, non si tratta di una novità “a sinistra”. Ma va evidenziato in modo esteso, va sviscerato per capire quale lacerazione politica possa produrre. Perché appare all’orizzonte una vera lotta di posizione ideologica. Nell’era del post-marxismo Marx sarà di nuovo posto sull’altare “dell’emancipazione del soggetto” e là immolato senza particolare pietà.

È però un Gorz che va anche oltre Marx, estremizzando l’idea dell’alienazione ed arrivando ad un “luddismo” mai dichiarato, ma presente e particolarmente virulento. Le pagine conclusive mostrano infatti tutta la sua disaffezione per l’innovazione tecnologica. “L’informatizzazione generalizzata non abolisce semplicemente il lavoro. …  Abolisce il mondo sensibile, vota le facoltà sensoriali all’inoperosità, nega loro la capacità di giudicare del vero e del falso, del bene e del male”. Un attacco quasi scomposto alla tecnosofia: “tutto procede come se l’accumulazione dei beni materiali e immateriali si manifestasse come un’immensa macchina per subordinare e condizionare gli agenti del consumo e della produzione. Gli effetti esterni finiscono per rendere esterni coloro che li suscitano”. Sono parole dense, l’arrivo di un percorso filosofico personale durato decenni. Parole di dura critica al contemporaneo. E stupisce quasi che questo pessimismo dell’analisi del reale riesca poi a fondersi in perfetto equilibrio con l’ottimismo della speranza, suggerita con queste intense esposizioni sulla “società del tempo libero” e sulla scelta della multiattività.

 Le mie conclusioni

Siamo alla fine, la lettura è stata intensa e molto convincente. Tutto rose e fiori? Purtroppo no.

Esponendo il suo progetto Gorz non può e non vuole affrontare alcuni punti aperti, proprio i più controversi per chi fa politica concretamente, nella quotidiana attività di ricerca del consenso. In particolare riferendosi al “reddito sufficiente”, quello che garantirebbe la diminuzione del lavoro per tutti, il filosofo non riesce a proporci vie veramente percorribili.

Ad esempio la questione del finanziamento degli oziosi, dei fannulloni, pare particolarmente complesso. Come evitare che semplicemente ci sia chi goda del reddito garantito per non fare assolutamente nulla, senza quindi nemmeno creare società? Gorz rifiuta il confronto sul tema, afferma unicamente che comunque sarebbe iniquo e inefficace esigere una contropartita, come ad esempio dei lavori socialmente utili.

Allo stesso modo discute degli incentivi: invece di entrare nell’argomento spiegandone la funzione economica, distrugge l’idea stessa che essi debbano esistere, li taccia d’essere “costrizioni”. Se c’è bisogno di incentivi – sostiene – allora il lavoro non è così attraente e gratificante, va quindi messo in discussione. Va insomma eliminata la subordinazione del lavoro al capitale.

Pure sull’ammontare del reddito Gorz si dilegua. È vero, la sua riflessione è lineare: parlare del quanto non avrebbe senso in una società multiattiva e in cui il ruolo del denaro sarebbe drasticamente modificato, in particolare di fronte all’aumento dello scambio non monetario e all’autoattività high-tec. Il problema però rimane, soprattutto se bisogna ad un certo punto storico proporre la riforma concretamente, come sta succedendo in Svizzera.

Infine anche il tema del finanziamento della proposta è lasciato in un limbo fumoso: invece di proporre risposte, Gorz nota laconicamente che nemmeno lo Stato di oggi è più realmente finanziabile. E quindi il discorso sul finanziamento sarebbe unicamente un velo di opposizione ideologica. Un discorso probabilmente corretto e realistico, ma improponibile ad un pubblico anche ansioso di capire come trasformare le speranze in realtà.

F.C. 2.12.2013



[1] www.grundeinkommen.ch