La competitività di Mario Monti
Mario Monti, professore di economia, è un politico chiaramente schierato a destra. Queste le sue parole al «Corriere della Sera», in un editoriale del 2 gennaio di quest’anno: «In Italia, data la maggiore influenza avuta dalla cultura marxista e la quasi assenza di una cultura liberale, si è protratta più a lungo, in una parte dell’opinione pubblica e della classe dirigente, la priorità data alla rivendicazione ideale, su basi di istanze etiche, rispetto alla rivendicazione pragmatica, fondata su ciò che può essere ottenuto, anche con durezza ma in modo sostenibile, cioè nel vincolo della competitività».
Ci sono tre parole che in questa frase denotano la politicità dell’uomo Monti e il tenore ideologico della sua politica per il futuro prossimo: «pragmatica», «sostenibile» e «competitività».
Il richiamo al pragmatismo e alla sostenibilità è il primo strumento che qualsiasi politico usa per scardinare le idee della parte avversa. Tacciando di idealistiche le idee dell’altro si fanno passare le proprie come le uniche fattibili, orientate al lungo periodo, che portano a risultati concreti. Omettendo però di specificare che ogni medaglia ha due lati, che una soluzione efficiente per una parte può essere molto insoddisfacente per l’altra. Insomma Monti usa i trucchi della retorica (e non il rigore della scienza) per giustificare il suo pensiero. È un buon politico.
Notata la politicità, va allora capito il suo orientamento ideologico. Possiamo ben leggere che in tutto il paragrafo citato sopra la parola chiave è competitività. Ora, io non sono un marxista, non sono nemmeno una persona che impernia il suo agire politico sulla lotta al capitale, ma qua una critica severa al discorso di Monti non può essere sottaciuta. Il richiamo programmatico alla competitività più che una promessa è un mantra. Una convinzione imperniata nelle menti di giovani e azioni: la ricchezza si produce solo con la lotta fra i concorrenti. Una nave ideologica questa che ha il vento in poppa in Italia come in Europa, e purtroppo anche nel nostro piccolo Ticino, dove la destra economica ha preso 7 seggi su 8 al Consiglio nazionale. Il loro metro politico e sociale è il mero conflitto fra le persone che dovrebbero voler ottenere più degli altri, tutte, costi quel che costi (questa è la competitività). La competitività come chiave di volta, come risposta ai problemi sociali; la competitività al risuono dell’antico «ognuno per sé, Dio per tutti»; la competitività come una via rigeneratrice. Se sei competitivo, e quindi non ti adagi sugli allori, sei un vincente. Se non ti sforzi di abbattere gli altri sei un perdente. Pensare di imporre una visione di questo tipo porta però insicurezza, invidia sociale, sentimento di ingiustizia per chi parte sapendo che perderà. E soprattutto porta uno spreco immane di risorse. Non solo perché nella pura competizione chi perde se ne rimane con le pive nel sacco, senza poter mettere a frutto i suoi investimenti. Ma anche perché la competitività porta a ignorare gli effetti negativi che possono riversarsi su coloro che alla «gara» non partecipano. Chi è in competizione, infatti, di principio si disinteressa di tutto il resto.
Questo programma politico è sbagliato. Ciò che bisogna rimettere al centro delle nostre rivendicazioni e che negli ultimi vent’anni è andato inesorabilmente perso dev’essere la solidarietà attiva. Una solidarietà che prenda spunto dalla consapevolezza delle capacità che ognuno di noi ha nei diversi ambiti della vita sociale. Una solidarietà che pretenda da ognuno la considerazione per gli altri concittadini e che metta al centro l’aiuto mutuale piuttosto che la sfida reciproca. Non è un segreto: volenti o nolenti nella società chi ha più capacità è avvantaggiato rispetto agli altri; ma qua va inserito il messaggio etico positivo e attivo (e non quindi quello distruttivo di Monti): i più bravi e privilegiati invece di restare indifferenti o addirittura calpestarli, aiutino tutti gli altri a stare meglio. Posso capire che queste parole sembrano solo noiosa teoria etica e politica. Ma non è così. La crisi del 2008, ovvero la causa dei nostri dolori odierni, era guidata da una visione ben chiara, dominata da un’unica parola: la competitività. Non ricadiamo negli stessi errori.
Filippo Contarini, giurista
pubblicato sul Corriere del Ticino il 25 novembre 2011
Bravo Contarini, almeno per metà. Sono d’accordo sulla sostanza critica del messaggio, ma la pars construens – soprattutto con l’inquietante retrogusto risentito e antimeritocratico dell’osservazione «chi ha più capacità è avvantaggiato» – non lascia intravedere grandi ricette. L’imprenditorialità non è per forza un male, soprattutto quando è rispettosa del territorio e valorizza le conoscenze pratiche; si tratta però di un valore che da noi gode di poca visibilità, e che una certa Sinistra – facendo proprie letture che la fanno coincidere con la giustamente deprecata «competitività» – non contribuisce certo a promuovere.
Non sono un partigiano delle idee di Ayn Rand, e non faccio parte dei super fortunati, ma quando sento appelli a tassare (o tartassare, come avviene in Italia) chi produce ricchezza non riesco a non simpatizzare per il piano di John Galt.
Caro Oliver,
ti ringrazio per avermi fatto conoscere Johnm Galt, dovrò leggermi qualcosa su di lui.
Il retrogusto antimeritocratico penso che possa essere un ottimo gusto in un palato diverso. Ti spiego il mio pensiero (senza fare filosofia dei più alti livelli, anche perchè ho visto che ci sai fare e io non ne sarei all’altezza) con una metafora modificata da un’altra metafora sentita nella campagna elettorale di Nicola Pini.
Lui diceva: io voglio che alla partenza ci siano corridori che hanno tutti le scarpette in ordine, la posizione uguale, il controllo antidpoing fatto. Poi però gli lascio fare la loro gara, vinca il migliore.
Ecco, secondo me una gara in cui si sa già che, nonostente le condizioni di partenza siano simili per i partecipanti, un partecipante (a causa di una sua particolerità interna) non avrà mai la possibilità di vincerla, beh, quella gara non va corsa.
E se proprio bisogna correrla, allora bisogna demitizzare (mi hai sentito già usare questa parola e me la sentirai usare spesso) la struttura della gara stessa, essere trasparenti, far notare che c’è chi parte monco. E decidere cosa si vuole farne, con una presa a carico delle conseguenze.
No, la competitività (e la meritocrazia) non può essere la panacea di tutti i mali. Io sono uno dei primi che vive la meritocrazia come uno strumento socialmente utile in senso benthamiano. Come dici tu, l’imprenditorialità può (può!) valorizzare le conoscenze pratiche. Ma da qua a elevare la sfida all’altro per assurgere al successo a scopo simbolico del nostro vivere sociale ce ne passa di strada sotto i ponti.
Io non so chi sia una certa sinistra, so che c’è una sinistra di cui non condivido le analisi storiche, sociali ed economiche. Una cosa a fronte di ciò posso garantire: non penso che bisogna aggredire chi produce ricchezza. Quello che mi chiedo è però: cui prodest la produzione di ricchezza? Perchè se uno produce ricchezza a suo utile eslcusivo e nel contempo mi tratta in modo indegno chi l’aiuta a produrla non avrà il mio sostegno.
Sto preparando una articolo sul tema. Provocatorio, ma non caustico come sai fare tu. mi dirai.
Cari saluti
Filippo