Flessibilità tra lavoro e investitori

La flessibilità è una componente essenziale della vita di ognuno di noi. Il motivo è semplice: non siamo in grado di prevedere con certezza il futuro.

Domani, oggi stesso addirittura, potrebbe accedere qualcosa a noi, ai nostri cari, ai nostri amici. Qualcosa di positivo o di negativo che ci può cambiare la vita in modo quasi completo. A questo si aggiunge che ogni giorno siamo confrontati con situazioni impreviste, con persone diverse da noi, con atteggiamenti che ci infastidiscono. L’unica arma che abbiamo, e che usiamo tutti i giorni, per contrastare questa incertezza è la flessibilità. Ovvero la capacità di affrontare le situazioni nuove ed inaspettate senza irrigidirsi, senza perdersi d’animo, trovando nella novità nuovi spunti.

Tuttavia oggi la parola “flessibilità” assume spesso altri significati. Soprattutto è abusata nell’ambito economico e dai partiti di destra quando si parla di condizioni di lavoro e di licenziamento. Perdendo così completamente  la valenza positiva che la parola dovrebbe avere.

È giusto che un lavoratore sia flessibile sul posto di lavoro, come del resto nella sua vita. E infatti la stragrande maggioranza lo è già. È flessibile quando sopporta un collega antipatico. Lo è quando il datore in un momento difficile gli chiede di lavorare di più, oppure chiede di fare altro. Lo è quando si decide di spostare l’azienda altrove e lui la segue, pur di lavorare. Lo è infine quando si mette in gioco e, magari ad un età già avanzata, cambia professione.

Questo la destra lo sa perfettamente, e infatti usa la parola “flessibilità” unicamente per descrivere la libertà di licenziare. O meglio, la usa quando vuole giustificare quelli che utilizzano il licenziamento come arma contro il lavoratore. Da parola positiva diventa quindi, declinata così, parola di ricatto, di negatività, di sopraffazione del forte sul debole.

Ma riflettiamo bene, ciò che deve stare oggi in cima alla lista di priorità dell’agenda politica è proprio pretendere questa “flessibilità” ai lavoratori? O meglio, siamo sicuri che la soluzione a tutti i mali sia dare altri strumenti di potere a chi il potere (i padroni) ce l’ha già? Che flessibilità vogliamo?

Di sicuro sappiamo una cosa: quelli che oggi sbandierano l’arma della flessibilità dimenticano che in un rapporto aziendale da una parte c’è il lavoro, dall’altra ci sono i soldi investiti. E mentre chiedono più “flessibilità” all’uno si dimenticano regolarmente di ricordare che ciò che è veramente inflessibile è proprio il denaro. I grossi investitori non hanno interesse a sapere cosa succede ai lavoratori nelle aziende, non si preoccupano dei loro grandi sacrifici. Dell’incertezza in cui vivono. Sembra paradossale, ma se l’azienda non licenzia e quindi non crea utile, gli investitori spostano i loro soldi portandoli altrove. Insomma, se c’è qualcuno che non riesce ad affrontare le situazioni difficili in modo calmo, cooperativo, disponibile, ovvero flessibile, quello è proprio l’investitore.

Lega, UDC, liberali estremi, democristiani, tutti fanno un gran parlare di flessibilità del lavoro e quant’altro. Dovrebbero però cominciare a vivere di più nella realtà. Perché di sicuro hanno poca riconoscenza nei confronti dei lavoratori che accettano di tutto, mentre mi pare chiaro che mostrano tanta sudditanza nei confronti di chi, a causa proprio dell’inflessibilità del denaro, ha causato i disastri finanziari degli ultimi anni.

 

Filippo Contarini, giurista, Porza

Candidato al Consigio Nazionale per il PS

Corriere del Ticino, 25.8.2011